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giovedì 14 luglio 2016

UNA CANZONE PER NON RESTARE SENZA PAROLE

Da “...Ma cosa vuoi che sia una canzone...” in poi non ho voluto perdermene uno; com’è successo a tanti miei coetanei il rock di Vasco Rossi mi ha accompagnato dai tempi della prima adolescenza, quando lo ascoltavo in maniera ossessiva (ed il mio Invicta ne era testimone), fino all’età più matura, quando il mio linguaggio somigliava ormai a quello delle sue canzoni; se il leitmotiv di mio padre era stato “Amami, Alfredo” il mio è stato sicuramente “Colpa D’Alfredo”: insomma in qualche modo siamo cresciuti insieme.

Vasco ha avuto la capacità di raccogliere i frammenti di linguaggio di una moltitudine di gente che, orfana di una appartenenza sociale, ci stava stretta nei limiti di una società che sembrava aver risolto tutto, una generazione che rischiava veramente di restare Senza parole.
Tutti quelli che non si accontentavano dell’apparente benessere degli anni Ottanta si riconoscevano nel desiderio e nell’idea di una Vita Spericolata, perché quando sono i geni a ribellarsi al sistema dominante e omologante si dice che pensano oltre, pensano differente, ma quando siamo in tanti a rompere quella gabbia allora C’è chi dice no.
Versi che infrangevano il quotidiano e ci mettevano di fronte a noi stessi, come in uno specchio, senza la maschera sociale che tanto ci pesava, Siamo solo noi significava che eravamo capaci di essere diversi, unici, ribelli e irripetibili e ci regalava la sensazione di quella eterna appartenenza ad un popolo che non ci sta: si era della combriccola del Blasco. Parole che arrivavano dirette senza troppi fronzoli, grazie anche alla complicità di una musica che non le accompagnava ma le completava: note usate per formare sintagmi, accordi come complementi, come aggettivi sottintesi, arrivando forse lui solo, a mettere insieme quel linguaggio di unità nazionale che ci è sempre mancato.

Poi la vita ti travolge, si intraprendono nuove avventure, il lavoro, gli impegni, ognuno a rincorrere i suoi guai e non si ha nemmeno il tempo per continuare a “frequentarci” come si vorrebbe. Ma ecco che un giorno ci si rincontra, non al Roxy Bar ma allo Stadio Olimpico di Roma.
Il 26 giugno 2016 al Live Kom 2016 è come rincontrare se stessi, niente che faccia pensare ad un raduno nostalgico tra amici, mi ritrovo in uno stadio vivo ed emozionato, che partecipa, che canta, che esplode, che improvvisa siparietti personali prendendo a prestito le parole delle canzoni che il Blasco canta dal palco; uno stadio dove insieme ai fan della prima ora ci sono anche i loro figli, un evento che è cominciato giorni prima e che finisce con il concerto di Vasco; il resto è gioia, passione e follia.
Immerso in un rito profano dissacrante ritrovo un Vasco come sempre senza falsi moralismi che ha saputo rinnovarsi, che non è rimasto uguale a se stesso, è riuscito ancora una volta a non farsi prendere, a non farsi etichettare; ed oggi che la vita spericolata è quella di tutti i giorni, ha assunto il ruolo che gli spetta: quello di Komandante. E quella sera ha approfittato di questo vantaggio per lanciare un ulteriore messaggio da leader, da intellettuale qual è: ”il nemico non è l’odio, ma la paura”, la paura del diverso, dello straniero, del vicino, la paura di non farcela, la paura di cambiare, penso io.
Capisco meglio le sue nuove canzoni da come rimbalzano sul suo pubblico, dialoga con quei giovani, che tutti vorrebbero imparare a capire, come fosse uno di loro, si ha come l’impressione che insieme alle canzoni scritte nel silenzio di una stanza, ci siano quelle improvvisate insieme a loro in questo meraviglioso happening che è la vita, dove, forse, ci si ritrova insieme in uno stadio a cantare sotto le stelle perché abbiamo tutti in comune l’inquietudine di vivere.

Carlo D’Andreis

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