Da “...Ma cosa vuoi che sia una canzone...” in
poi non ho voluto perdermene uno; com’è successo a tanti miei
coetanei il rock di Vasco Rossi mi ha accompagnato dai tempi della
prima adolescenza, quando lo ascoltavo in maniera ossessiva (ed il
mio Invicta ne era
testimone), fino all’età più matura, quando il mio linguaggio
somigliava ormai a quello delle sue canzoni; se il leitmotiv
di mio padre era stato “Amami,
Alfredo” il mio è stato sicuramente “Colpa
D’Alfredo”: insomma in qualche modo siamo cresciuti insieme.
Vasco ha avuto la capacità di raccogliere i
frammenti di linguaggio di una moltitudine di gente che, orfana di
una appartenenza sociale, ci stava stretta nei limiti di una società
che sembrava aver risolto tutto, una generazione che rischiava
veramente di restare Senza parole.
Tutti quelli che non si accontentavano
dell’apparente benessere degli anni Ottanta si riconoscevano nel
desiderio e nell’idea di una Vita Spericolata, perché
quando sono i geni a ribellarsi al sistema dominante e omologante si
dice che pensano oltre,
pensano differente, ma quando siamo
in tanti a rompere quella
gabbia allora C’è chi dice no.
Versi
che infrangevano
il quotidiano e ci mettevano di fronte a
noi stessi, come in uno
specchio, senza la maschera
sociale che tanto ci pesava, Siamo solo noi
significava che eravamo capaci di essere diversi, unici, ribelli e
irripetibili e ci regalava la sensazione di quella
eterna appartenenza ad un
popolo che non ci sta: si era della
combriccola del Blasco.
Parole che arrivavano dirette
senza troppi fronzoli, grazie anche alla complicità di una musica
che non le accompagnava ma le completava: note
usate per
formare sintagmi, accordi
come complementi, come aggettivi sottintesi, arrivando
forse lui solo, a mettere
insieme quel linguaggio di
unità nazionale che ci è
sempre mancato.
Poi la vita ti travolge, si intraprendono nuove
avventure, il lavoro, gli impegni, ognuno a rincorrere i suoi guai
e non si ha nemmeno il tempo per
continuare a “frequentarci” come si vorrebbe. Ma ecco che un
giorno ci si rincontra, non al Roxy Bar ma
allo Stadio Olimpico di Roma.
Il 26 giugno 2016 al Live Kom 2016 è come
rincontrare se stessi, niente che faccia pensare ad un raduno
nostalgico tra amici, mi ritrovo in uno stadio vivo ed emozionato,
che partecipa, che canta, che esplode, che improvvisa siparietti
personali prendendo a prestito le parole delle canzoni che il Blasco
canta dal palco; uno stadio dove insieme ai fan della prima ora ci
sono anche i loro figli, un evento che è cominciato giorni prima e
che finisce con il concerto di Vasco; il resto è gioia, passione e
follia.
Immerso in un rito profano dissacrante ritrovo un
Vasco come sempre senza falsi moralismi che ha saputo rinnovarsi, che
non è rimasto uguale a se stesso, è riuscito ancora una volta a non
farsi prendere, a non farsi etichettare; ed oggi che la vita
spericolata è quella di tutti i giorni, ha assunto il ruolo che gli
spetta: quello di Komandante. E quella sera ha approfittato di questo
vantaggio per lanciare un ulteriore messaggio da leader, da
intellettuale qual è: ”il nemico non è l’odio, ma la paura”,
la paura del diverso, dello straniero, del vicino, la paura di non
farcela, la paura di cambiare, penso io.
Capisco meglio
le sue nuove canzoni da
come rimbalzano sul suo pubblico, dialoga con quei giovani, che tutti
vorrebbero imparare a capire, come fosse uno di loro, si ha come
l’impressione che insieme alle canzoni scritte nel silenzio di una
stanza, ci siano quelle improvvisate insieme a loro in questo
meraviglioso happening che è la vita, dove, forse, ci si ritrova
insieme in uno stadio a cantare sotto le stelle perché abbiamo tutti
in comune l’inquietudine di vivere.
Carlo D’Andreis
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